Prima di parlare della formazione-informazione-addestramento, corre l’obbligo di soffermarsi sul fatto che nel corso del 2021 si sono verificati oltre 1000 incidenti mortali sul lavoro e decine di migliaia di infortuni che hanno avuto conseguenze gravi o gravissime.
L’etimologia del termine infortunio (dal latino infortunium, composto dalla particella “in” che sta per “non” e “fortuna” che significa “favorevole accidente”) rappresenta una delle più evidenti parole sbagliate della sicurezza sul lavoro (quasi al pari di “morti bianche”) in quanto lascia intendere che dietro alla morte di un lavoratore ci sia solo uno sfortunato evento o il concatenarsi di situazioni aleatorie ed imprevedibili.
Se invece si effettua un’attenta analisi di tutti questi incidenti si scopre (!) che è più che mai valido il principio di causa-effetto e che questi eventi hanno spesso uno o più fili conduttori che ne accomunano le motivazioni e le responsabilità.
Uno (tra tanti) di questi fil rouge è la formazione. O meglio la carenza di formazione-informazione-addestramento.
Formazione-informazione-addestramento, principi cardine della materia prevenzionistica sul lavoro ma che spesso non vengono neanche compresi e che, ancora più spesso, vengono sottovalutati a tal punto da essere trascurati o vissuti come adempimenti meramente formali.
In quanti conoscono esattamente la differenza tra formazione-informazione-addestramento? In pochissimi. Eppure, rappresentano tre momenti conoscitivi/cognitivi fondamentali per l’interazione tra il lavoratore ed il proprio lavoro.
Il d.lgs. n.81/2008, all’art. 2, lettera aa) definisce la «formazione» quale “processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi”.
In sostanza, la formazione dovrebbe essere quel processo attraverso il quale vengono trasferite conoscenze e competenze, con l’obiettivo di insegnare al lavoratore in particolare come identificare, ridurre e gestire i rischi. Possiamo dire che questa è la fase “teorica”: saper capire, al fine di poter agire in sicurezza.
Al medesimo art. 2, ma alla lettera bb) viene definita l’«informazione» come il “complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro”.
L’informazione è perciò un trasferimento più specifico (rispetto al proprio ambiente di lavoro) ed “immediato” di informazioni e competenze che inseguono il medesimo fine: identificare, ridurre e gestire i rischi collegati al proprio ambiente di lavoro. In questo caso, infatti, non è chiamato in causa il “processo educativo”.
Alla lettera cc) si definisce l’«addestramento» come il “complesso delle attività dirette a fare apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuale, e le procedure di lavoro”.
L’addestramento e l’informazione sono, dunque, le attività con maggiore potenzialità di incidere sulla prevenzione infortuni. L’addestramento, in particolare, essendo solitamente svolto da un preposto o, comunque, da una persona esperta di determinate operazioni (“5. L’addestramento viene effettuato da persona esperta e sul luogo di lavoro.”), risulta destinato ad essere più credibile da parte di chi viene addestrato.
Eppure, la realtà è oggi molto distante dalla concreta applicazione di questi principi.
Le prime indagini svolte sulle morti del 2021 hanno evidenziato che oltre la metà dei lavoratori coinvolti possedevano profonde carenze in termini di formazione-informazione-addestramento.
La realtà attuale è dunque sin troppo facile da descrivere: il lavoratore viene iscritto (perché obbligato dalla norma) ad un corso di formazione il quale, se venisse seguito con attenzione e se il formatore fosse sufficientemente bravo, gli potrebbe fornire solo i primi rudimenti per comprendere concetti generali (e spesso troppo trasversali) di rischio.
L’informazione non esiste quasi mai ed è spesso rinviata all’intelligenza ed all’arguzia del lavoratore che, da solo, dovrebbe prendere “coscienza” del proprio ambiente di lavoro e dei pericoli che vi si annidano. C’è da chiedersi come possa, un lavoratore neoassunto, interpretare realtà imprenditoriali che per lui/lei appaiono evidentemente complesse.
L’addestramento poi, se non inserito per legge all’interno di un processo di formazione (come per i lavori in quota, il montaggio ponteggi, etc.), è quasi sempre inesistente e la persona esperta che dovrebbe assistere “l’apprendista”, lo “abbandona” dopo poche spiegazioni, dando per scontato che “se lui è sopravvissuto a quel macchinario, può farlo anche un giovane nuovo arrivato”.
Avviene così che una giovane donna, operaia, con la formazione sul rischio base, con poche decine di ore d’esperienza, venga messa ad un macchinario il quale, tra l’altro, viene pure manomesso per aumentarne la produzione di qualche misero punto percentuale. E la ragazza muore. Inghiottita dalla stessa macchina che avrebbe dovuto invece sfamare lei e suo figlio.
Avviene così che un ragazzo di 23 anni sia costretto a salire su una copertura. E che nessuno gli abbia detto (lo abbia informato) che sarebbe stato meglio rimanere in certe specifiche zone, e così il ragazzo mette un piede dove non avrebbe dovuto e precipita da 7 metri di altezza. E muore, lasciando una compagna ed un bambino di pochi mesi.
Il recente d.l. 146/2021 ha iniziato ad evidenziare l’importanza dei processi formativi dei lavoratori, ponendone l’eventuale assenza tra i motivi gravi per i quali l’organo di vigilanza deve adottare immediatamente il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale.
Siamo ad un primo, importante passo, ma occorre pensare ad una vera e propria rivoluzione copernicana del sistema, rivedendo il ruolo delle tante società di formazione e consulenza sulla sicurezza, ridefinendo i criteri di selezione dei formatori e iniziando a ripensare a radicali modifiche normative, tali da “costringere” le imprese a momenti concretamente dimostrabili di informazione ed addestramento.
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